OLTRE LE SBARRE
Il percorso dei detenuti
dal carcere alla rieducazione sociale
«Entrare in carcere è molto facile, basta poco. È uscirne che è molto difficile»
Saber e Cristian sono due ex detenuti che, grazie ad un percorso di rieducazione, oggi lavorano nel Tribunale di Cagliari, all’interno di un progetto di reinserimento organizzato dall’Aspal (Agenzia Sarda per le Politiche Attive del Lavoro), dal Tribunale di Cagliari e dalla comunità La Collina di Serdiana (Ca) dove si occupano della dematerializzazione degli atti penali.
Insieme a loro lavora Omar Corona, un educatore della comunità che li ha seguiti fin dall’inizio del loro percorso di rieducazione.
Saber e Cristian si sono conosciuti in carcere e sono stati arrestati per lo stesso reato: traffico di droga.
Le motivazioni che spingono a commettere questo reato e a delinquere sono la mancanza di lavoro, la bassa scolarizzazione (la maggior parte dei detenuti al momento del loro ingresso in carcere ha conseguito solo la licenza media) e l’ambiente in cui si è cresciuti. Queste cause spesso possono convergere.
Saber è nato in Tunisia ed è arrivato in Italia da clandestino, senza permesso di soggiorno e di conseguenza impossibilitato a trovare un lavoro regolare. Per un periodo ha lavorato in nero, sfruttato e senza guadagnare abbastanza denaro per mantenersi. Tramite alcune conoscenze, riuscì a guadagnare dei soldi in maniera illecita grazie allo spaccio di sostanze stupefacenti.
«Ero un ragazzino e non avendo alternative per sopravvivere - dice Saber - sono stato costretto a frequentare persone che mi hanno portato in quella strada. In precedenza ho anche lavorato in nero, sfruttato e pagato una miseria. In queste situazioni le strade sono due: o fai uso di droga perché vedi davanti a te un futuro grigio e incerto o inizi a spacciare. Non avevo altre soluzioni».
Venne arrestato nel 2002, all’età di 17 anni, a Genova. Nonostante non avesse ancora 18 anni, fu rinchiuso nel carcere di Marassi perché, essendo sprovvisto di documenti, era stato riconosciuto erroneamente come maggiorenne da parte del medico del carcere tramite la valutazione della maturazione ossea della mano. Da quel giorno, Saber ha scontato 15 anni tra Genova (Marassi), Milano (San Vittore) e Cagliari (Buoncammino e Uta).
Cristian ha passato in carcere 10 anni della sua vita tra Buoncammino e Uta. È nato e cresciuto a Sant’Elia, uno dei quartieri più difficili del capoluogo sardo. Anche lui iniziò a delinquere fin da ragazzo.
«Volevo guadagnare soldi in fretta e velocemente - dice Cristian - e quello era il modo più rapido. Il quartiere dove sono cresciuto ti offre principalmente questa via».
«L’ambiente che ti circonda è influente, ma alla fine è la persona che decide»
È credenza comune pensare che chi vive e cresce in un quartiere particolarmente difficile ha più possibilità di entrare all’interno di una logica criminale. Certamente le possibilità sono maggiori, ma è anche vero che tante persone cresciute in zone malfamate riescono a sfuggire da queste logiche. Durante la sua esperienza, Omar Corona, educatore della comunità La Collina, che ha avuto modo di conoscere e rapportarsi con ragazzi che hanno avuto precedenti penali, ha riscontrato come siano molto più importanti e decisive le situazioni vissute e la personalità della singola persona piuttosto che la provenienza.
«L'ambiente in cui una persona cresce è importante - afferma Omar - ma è decisivo il vissuto dell'individuo e come reagisce in determinate situazioni. È comunque il singolo individuo ad essere decisivo».
Della stessa idea è Cristian che ha portato un suo esempio molto personale. Nonostante siano cresciuti nello stesso quartiere (Sant’Elia), nella stessa casa e abbiano vissuto le stesse identiche situazioni familiari e le stesse amicizie, suo fratello non ha nemmeno mai lontanamente pensato di commettere un reato, cosa che invece lui ha fatto.
«Ho anche tanti amici nel mio quartiere - sottolinea Cristian - che lavorano e sono incensurati. Alcuni non hanno nemmeno mai fatto un tiro di sigaretta. L’ambiente può influire, ma alla fine dipende tutto dalla singola persona».
Un quartiere fuori servizio
Sant’Elia è considerato dalla maggior parte dei cagliaritani come il quartiere più pericoloso e difficile della città, insieme a quelli di San Michele ed Is Mirrionis. A differenza di questi ultimi due, ben collegati e situati all’interno della città, Sant’Elia si trova in una zona isolata e poco connessa, tant’è vero che è raggiungibile da soli due ingressi stradali. Il suo isolamento geografico rispecchia l’isolamento della sua comunità costituita storicamente da famiglie assegnatarie di alloggi di edilizia pubblica.
Il quartiere, nato nei primi anni ’50 del ‘900, è il classico esempio di edilizia residenziale pubblica. Vi trovarono residenza principalmente il ceto più povero della città, insieme a pescatori e lavoratori portuali. Fin dalla sua nascita, fu evidente come il Vecchio Borgo fosse isolato dal resto della città, sia per la mancanza di vie di comunicazione sia di servizi pubblici. Già in questi anni si sviluppò un fenomeno di ghettizzazione e discriminazione verso la comunità di residenti considerata dai più come formata da persone povere, con poca cultura e con una certa attinenza al crimine.
Con i finanziamenti stanziati dalla legge 18 aprile 1962 n. 167, tra il 1975 e il 1978 venne edificato il Nuovo Borgo Sant’Elia, costituito interamente da edifici popolari ispirati al brutalismo (del tutto simili alle vele di Scampia e lo Zen di Palermo). Queste nuove strutture (chiamate in gergo “palazzoni”) acuirono ancora di più il distacco dal resto della città, creando una vera e propria ghettizzazione e un pregiudizio ancora più forte verso questa comunità. È proprio in questi anni che si manifestò la stigmatizzazione del quartiere che divenne teatro di criminalità tra cui soprattutto traffico di droga e aggressioni.
Soltanto negli ultimi anni è stata avviata una riqualificazione con la costruzione di aree verdi e pedonali, tra cui il lungomare. Nonostante questi interventi esteticamente lodevoli, nel quartiere sono completamente assenti alcuni servizi fondamentali quali il servizio postale, una centrale delle forze dell'ordine e da un anno non è presente nemmeno un medico di base.
Altro fatto gravissimo è la mancanza, fin dalla nascita del quartiere, di una scuola media (sono presenti solo la scuola dell'infanzia e una scuola elementare). Non è quindi un caso che a Sant'Elia si sia registrato il più alto tasso di dispersione scolastica e di disoccupazione della città di Cagliari.
Abitazioni del Vecchio Borgo viste dal Lazzaretto
Abitazioni del Vecchio Borgo viste dal Lazzaretto
I "Palazzoni" del Nuovo Borgo visti dall'alto
I "Palazzoni" del Nuovo Borgo visti dall'alto
Rete da pesca nell'ingresso di un'abitazione del Vecchio Borgo. Ancora oggi come in origine, molti pescatori vivono in questo quartiere
Rete da pesca nell'ingresso di un'abitazione del Vecchio Borgo. Ancora oggi come in origine, molti pescatori vivono in questo quartiere
Scorcio del Vecchio Borgo
Scorcio del Vecchio Borgo
Uno dei "Palazzoni" del Nuovo Borgo
Uno dei "Palazzoni" del Nuovo Borgo
Vista da uno dei ballatoi dei "palazzoni"
Vista da uno dei ballatoi dei "palazzoni"
«La liberazione non è la libertà; si esce dal carcere, ma non dalla condanna», scriveva Victor Hugo nel nel suo romanzo “Les Misérables”. Senza un percorso di rieducazione, un ex detenuto ha altissime probabilità di ritornare dietro le sbarre. Il comma 3 dell’art. 27 della Costituzione cita testualmente: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ma l’organizzazione carceraria italiana è in grado di rispettare alla lettera questo principio?
Victor Hugo, autore del romanzo "Les Misérables"
«Bisogna riuscire a capire quale sia il percorso rieducativo giusto che il singolo detenuto deve affrontare. Ogni condannato ha un vissuto e delle esigenze diverse. Questo è ciò che bisogna tenere a mente quando si parla di rieducazione»
La funzione di un carcere è quella di rieducare il condannato. Nel sistema penitenziario, la cosiddetta "osservazione scientifica della personalità" rappresenta il metodo attraverso cui l'Amministrazione deve favorire il reinserimento sociale dei condannati, mediante la rimozione delle cause di disadattamento sociale ritenute alla base della devianza criminale. Inoltre, è finalizzato a rilevare le carenze fisiopsichiche o le altre cause che hanno condotto al reato. L'osservazione è svolta dall’équipe di osservazione, composta da personale dipendente dell'amministrazione: funzionari giuridico pedagogici, funzionari di servizio sociale, personale di polizia penitenziaria e, se necessario, anche da altri professionisti come esperti di psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, sotto il coordinamento e la responsabilità del direttore dell'istituto.
L'équipe acquisisce i documenti riguardanti i dati giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e sociali del detenuto. Vengono poi svolti dei colloqui con il soggetto sottoposto ad osservazione sulla base dei dati ottenuti, finalizzati a stimolare il processo "revisione critica", ovvero una riflessione sulle condotte antigiuridiche, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative per il detenuto e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato.
Infine, l'équipe di osservazione si riunisce per redigere la relazione di sintesi dell'osservazione scientifica della personalità contenente una proposta di programma di trattamento che deve essere approvata con decreto dal magistrato di sorveglianza.
Il programma di trattamento consiste nell’insieme degli interventi rieducativi che gli operatori penitenziari propongono di attuare nei confronti del condannato durante l'esecuzione della pena. L'osservazione, prosegue anche durante l'esecuzione della pena per registrare l'evoluzione della personalità del detenuto. A questo iter non possono accedervi gli imputati in attesa di giudizio, data la presunzione di innocenza.
Dall'équipe di osservazione si distingue il Got (Gruppo di Osservazione e Trattamento). Del Got fanno parte o possono essere chiamati a farne parte, oltre ai componenti dell'équipe, tutti coloro che interagiscono e collaborano al trattamento del detenuto. Questo gruppo è sempre coordinato dal responsabile dell'area educativa. Il Got si riunisce periodicamente sia prima che dopo l’osservazione, per verifiche ed aggiornamenti sulla situazione del detenuto.
Nonostante questa organizzazione, lavorare all'interno del carcere non è semplice, vista la differenza tra la quantità di detenuti e le mansioni che possono essere svolte.
«È raro lavorare in carcere -afferma Saber con amarezza - c'è poco lavoro fuori, dentro è ancora peggio. Per poter far lavorare tutti si fanno dei turni. Io lavoro per due mesi, poi al mio posto subentra qualcun altro. Io sono stato fermo senza lavorare anche più di un anno. La gestione purtroppo è completamente sbagliata».
«Io ho avuto la fortuna di avere la possibilità di lavorare fin da subito - aggiunge Cristian- e in dieci anni non ho mai avuto nemmeno un rapporto disciplinare. Sono stato meritevole e l'opportunità me l'hanno data».
Sia Saber che Cristian hanno svolto diversi lavori sia all'interno che all'esterno del carcere. Ad esempio, Saber ha lavorato nella lavanderia, ed entrambi si sono occupati del montaggio dei vari pensili e dei letti nel carcere di Uta durante la sua costruzione. Nel 2012, è stato assegnato a Saber il compito di tinteggiare un muro esterno di Buoncammino in vista dell'imminente visita nell'istituto dell'allora Ministra della Giustizia Paola Severino. Per la prima volta dopo 9 anni usciva dalle porte del carcere.
«Era la prima volta che uscivo fuori per poche ore dopo 9 anni in cella», afferma Saber con commozione. «Mi sembrava tutto strano, sentivo tutti gli occhi dei passanti addosso anche se nessuno faceva caso a me. Ad esempio, vedere tante persone con gli smartphone era una cosa nuova. È stata una bella emozione».
Entrambi hanno poi usufruito della semi-libertà. Durante il giorno andavano a lavorare e la notte tornavano a dormire in carcere, in un'area separata con spazi più aperti e in comune. La strada dal carcere al posto di lavoro e viceversa, viene percorsa autonomamente dal detenuto.
«Per venire a lavorare in Tribunale - dice Saber - prendevo ogni giorno il bus e ho sempre fatto il biglietto. Prima di finire in carcere non lo facevo mai, non sapevo nemmeno che ce ne fosse bisogno».
Un ruolo molto importante nella rieducazione, specialmente per i detenuti in regime di semilibertà o per coloro in esecuzione penale esterna, viene svolto dalle comunità.
Accoglienza, lavoro e cultura
Nel 1994 un gruppo di volontari animati da don Ettore Cannavera, hanno dato vita ad un progetto alternativo al carcere fondando la comunità "La Collina", una realtà che accoglie giovani adulti in esecuzione penale esterna. Il suo fondatore, Ettore Cannavera è un sacerdote che è stato per tanti anni il cappellano del carcere minorile di Quartucciu (Ca). L'idea di don Ettore è quella di rieducare i ragazzi fuori dalle mura di un carcere in cui non vengono fatti progressi. La sua missione, che porta avanti con l'aiuto di una vivace squadra di educatori, è quella di offrire una nuova opportunità a chi ha avuto la sfortuna di conoscere il carcere.
La comunità, completamente immersa nella natura, si trova ad un chilometro e mezzo da Serdiana, ad una ventina di chilometri da Cagliari, ed è adagiata sul pendio di un colle. La struttura è composta da un grande edificio principale e da altri più piccoli in cui vi si trovano gli alloggi dei ragazzi. Attorno si stende l'azienda agricola composta da giardino, vigna, oliveto, frutteto ed orto. Inoltre i prodotti (olio e vino) che vedono la luce grazie ai ragazzi che lavorano nell'azienda agricola, vengono poi imbottigliati e venduti per potersi auto finanziare.
«Il nostro cancello principale è sempre aperto - afferma Simone Cabroi, educatore della comunità - e i ragazzi possono muoversi liberamente dentro la struttura, ma sanno anche di non poter uscire fuori. Sono responsabilizzati e sono consapevoli di avere la nostra fiducia».
Alle persone accolte in comunità viene data l'opportunità di riacquistare la propria dignità e i propri diritti attraverso un percorso fondato sul lavoro che dia loro delle responsabilità. I ragazzi hanno la possibilità di cambiare le proprie prospettive di vita senza essere lasciati mai da soli. Proprio per questo motivo la comunità è completamente aperta. Non ci sono sbarre alle finestre come in carcere e non ci sono nemmeno telecamere di sicurezza. Il cancello d'ingresso è sempre aperto anche la notte e nessuna porta è mai chiusa. Il lavoro degli educatori punta ad un ricongiungimento della persona con la sfera sociale. A riprova di ciò, basti pensare che alcuni ex detenuti che sono stati ospiti o hanno ricevuto l'aiuto da parte della comunità, ancora oggi abbiano mantenuto i contatti con essa. Saber, durante il weekend va a dare una mano d'aiuto ai ragazzi come volontario: «Quando non lavoro, spesso vengo a dare una mano d'aiuto. Ricambio l'aiuto che loro hanno dato a me».
Nella comunità non viene accolto solo chi ha avuto problemi con la giustizia, ma anche immigrati e rifugiati provenienti da tutto il mondo grazie al progetto "Accoglienza metropolitana".
La comunità promuove anche delle attività culturali con ospiti importanti (come ad esempio la pittrice Simona Atzori, i Tenores di Neoneli, il teologo Vito Mancuso), a cui può partecipare chiunque. Ogni mercoledì vengono organizzati degli incontri, dei convegni e degli spettacoli. Questa vocazione culturale si esprime anche nella vastità di volumi contenuti nella biblioteca comunitaria, nella rivista "La Collina. Fa che nessuno si perda" edita dal 2007, nella piccola casa editrice "Edizioni La Collina".
Come si entra nella comunità?
Nella carta dei servizi della comunità si legge che «per esservi accolti è necessario seguire un percorso che si articola in diversi passi:
- il detenuto contatta, tramite l'educatore dell'istituto di pena in cui è recluso, gli operatori del Servizio sociale territoriale o del Ministero della Giustizia, che valutano la sua richiesta di essere accolto in comunità;
- il servizio che ha preso in carico la richiesta la invia alla comunità, allegando la relazione con le informazioni della persona richiedente;
- ricevuta la richiesta, gli operatori de "La Collina" formulano una prima valutazione sull'opportunità di inserimento;
- se la valutazione è positiva, viene dato l'avvio all'inserimento vero e proprio che si articola in due fasi, quella di conoscenza e quella di pre-accoglienza. Nella prima fase, il ragazzo o la ragazza hanno il primo incontro con la comunità e iniziano a soggiornarvi per alcuni giorni al fine di farsi un'idea sulla vita e sulle regole comunitarie. Nella seconda fase, il rapporto con la comunità si approfondisce e l'ospite potrà soggiornarvi per 3 mesi consecutivi, in cui partecipa a pieno titolo alla vita comune. In seguito si svolge una riunione che ha il compito di valutare l'inserimento stabile del richiedente. A questo punto viene definito il percorso educativo individualizzato».
La vita in Collina
Don Ettore e i suoi collaboratori creano quotidianamente delle opportunità di crescita culturale, spirituale e sociale che sono finalizzate allo sviluppo dell'autonomia nella gestione della propria vita per i ragazzi. A questi viene chiesto l'impegno di svolgere alcuni compiti come lavorare e studiare. Ogni ospite risponde a dei compiti e a delle regole assegnatigli secondo un piano educativo personalizzato concordato con gli educatori che può variare nel tempo. I ragazzi sono tenuti a rispettare degli orari e, almeno inizialmente, ad utilizzare il cellulare solo in determinate circostanze, possono fumare un numero limitato di sigarette al giorno ed è consentito un consumo limitato di caffè.
Sono consentite le visite di genitori e parenti in comunità. Inoltre, i ragazzi partecipano alle spese necessarie per la vita quotidiana (alimenti, bollette) e alle spese di manutenzione della struttura.
La giornata tipo nella comunità
Nella carta dei servizi della comunità è possibile leggere come si svolge la giornata tipo degli ospiti.
I ragazzi si svegliano la mattina presto alle 6.30, si occupano della pulizia della stanza e personale senza l'utilizzo di smartphone, radio e tv. Poco dopo si svolge la colazione e dalle 7.30 fino alle 12, gli ospiti svolgono la loro attività lavorativa retribuita. Alle 13 si svolge il pranzo e, una volta concluso, i ragazzi possono riposarsi e svolgere attività personali come, ad esempio, fare il bucato. Nel pomeriggio, tra le 16 e le 18, gli ospiti svolgono gratuitamente il servizio comunitario, come ad esempio la cura dell'ambiente esterno. Successivamente viene preparata la cena, rispettando dei turni come per il pranzo. Dopodiché , i ragazzi possono rilassarsi leggendo un libro, ascoltando musica, scrivendo o guardando la tv. Alle ore 23 si esige il silenzio fino alla sveglia successiva.
Nel fine settimana, la sveglia è meno rigida (alle 7 il sabato e alle 8 la domenica). Inoltre, nel pomeriggio i ragazzi possono uscire con l'educatore, con persone di fiducia o da soli, a seconda delle prescrizioni della magistratura e della fiducia conquistata dalla comunità.
Al termine dell'esecuzione penale, i ragazzi non vengono lasciati soli. Infatti nell'hinterland cagliaritano sono disponibili degli appartamenti dove i ragazzi, insieme anche a persone care, si trasferiscono pagando l'affitto e le utenze, diventando sempre più autonomi e indipendenti.
Senza ombra di dubbio, la comunità La Collina può esser considerata una vera e propria eccellenza, frutto del grande lavoro e del grande cuore di Don Ettore Cannavera e dei suoi collaboratori. Non è infatti un caso che il capo dello Stato Sergio Mattarella, nel 2017, abbia conferito a don Ettore l'onorificenza di commendatore al merito della Repubblica.
La vita in carcere
Il numero dei detenuti e il sovraffollamento
L’8 gennaio 2013 l’Italia venne condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’art. 3 della Cedu con l’ormai famosa sentenza Torreggiani. La Corte, pur escludendo la volontà delle autorità italiane di sottoporre i detenuti a trattamenti degradanti ed inumani, constatò che le condizioni di reclusione erano incompatibili con il rispetto della dignità umana. La Cedu sottolineò come il sovraffollamento fosse un gravissimo problema dovuto al malfunzionamento cronico dell’organizzazione penitenziaria nazionale e che fosse necessario avviare degli interventi di carattere strutturale.
A dieci anni da questa sentenza, per superare la piaga del sovraffollamento, sono stati fatti numerosi interventi legislativi che però non hanno portato a risultati apprezzabili.
«Soltanto durante la pandemia causata dal Covid-19 - afferma la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari Maria Cristina Ornano - c’è stato un calo del tasso di sovraffollamento. Ma già dai primi sei mesi del 2021 si è potuta constatare una ripresa costante e allarmante».
Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 dicembre 2023, i detenuti presenti nelle carceri italiane sono 60.166 a fronte di una capienza massima di 51.179. Questi dati suscitano profonda preoccupazione perché i numeri sono destinati a crescere e negli ultimi tre anni hanno mostrato segni di una forte accelerazione (vedi infografica).
Durante il loro periodo di reclusione, sia Saber che Cristian si sono dovuti confrontare con il sovraffollamento. Saber ha avuto vissuto una situazione esasperante nel carcere di Milano e di Buoncammino, dove i detenuti vivevano una condizione di affollamento impressionante. Nel carcere cagliaritano ha dovuto condividere la propria cella sovraffollata con altri 4 detenuti tutti tossicodipendenti.
«Era una situazione allucinante, - sottolinea Saber - ero arrivato a pensare di essere io quello con dei problemi».
Cristian ha persino usufruito di un risarcimento perché, durante la detenzione nel carcere di Buoncammino, viveva in una cella in cui non era garantito lo spazio adeguato (9 mq per singolo detenuto). Infatti la legge 11 agosto 2014 n. 117 stabilisce che «i detenuti che hanno subito un trattamento non conforme al disposto della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo abbiano diritto a ottenere la riduzione di un giorno di pena per ogni dieci durante il quale è avvenuta la violazione del loro diritto a uno spazio e a condizioni adeguate, con contestuale previsione in favore di coloro che non si trovino più in stato di detenzione di un risarcimento pari a 8€ per ciascuna giornata di detenzione trascorsa in condizioni non conformi alle indicazioni della Cedu».
«Dal sovraffollamento si è creata una reazione a catena»
Il sovraffollamento non è certamente l'unico problema delle carceri italiane. Si può però affermare che da ciò nascono tante altre piaghe che affliggono il sistema carcerario.
Infatti, il sovraffollamento carcerario mette a rischio i diritti fondamentali dei detenuti perché li priva dello spazio minimo vitale, limita l’accesso al trattamento ed alle opportunità che il carcere deve offrire, non rispettando la finalità rieducativa della pena. Inoltre, aggrava le già profonde carenze del sistema sanitario carcerario ledendo il diritto alla salute dei detenuti e mettendo a repentaglio la loro incolumità ed il loro benessere psicofisico. Ciò è anche la causa dell'altissimo tasso di suicidi in carcere tra i detenuti. «Dal sovraffollamento - sostiene Maria Cristina Ornano - si è creata una vera e propria reazione a catena».
Tutti questi problemi non colpiscono solo chi sta scontando una pena. Infatti anche il personale carcerario (dagli agenti della polizia penitenziaria agli educatori), già gravemente carente per le pesanti scoperture di organico, è esposto a forti situazioni di stress e di sovraffaticamento che spesso comportano a non garantire la sicurezza degli istituti penitenziari.
Inoltre, la costruzione negli ultimi anni delle cosiddette mega-carceri non ha fatto che acuire tutti questi problemi e non ha portato ai risultati sperati.
«La costruzione di queste carceri ha creato una massificazione - sottolinea Maria Cristina Ornano - e, conseguentemente, la loro gestione è diventata sempre più difficoltosa non solo dal punto di vista economico, organizzativo ed amministrativo ma anche personale. È fondamentale considerare che ogni detenuto ha esigenze diverse e più il carcere è grande ed affollato e più sarà difficile occuparsi della singola persona».
L'ormai quasi completa dismissione delle carceri mandamentali ha aggravato ancora di più la situazione. In questi istituti sono detenute le persone in attesa di giudizio per reati lievi oppure condannate a pene fino ad un anno di reclusione.
Anche le colonie penali agricole sono poco utilizzate. In Italia, queste sono soltanto quattro, di cui tre in Sardegna ed una in Toscana nell'isola di Gorgona. Attualmente, nessuna ha raggiunto la capienza massima, ma anzi ci sarebbe spazio per parecchi detenuti. Infatti i posti totali tra le quattro colonie agricole sono 544, mentre quelli occupati sono 345. Sarebbe utile promuovere, nei casi in cui è possibile, l'utilizzo di questa tipologia di carcere, validissime anche per la rieducazione dei detenuti.
Questa situazione, inevitabilmente, espone nuovamente l'Italia ad una possibile nuova condanna per violazione dei diritti umani come avvenuto nel 2013.
«Stavo parlando con lui poche ore prima e poi la notte l'ho visto a penzoloni nelle sbarre della finestra...si era impiccato»
Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre 2023, sono stati 68 i suicidi dei detenuti nelle carceri nell'ultimo anno. Un dato più basso rispetto a quello dello scorso anno (84), ma comunque molto preoccupante.
La scelta di porre fine alla propria vita da parte di un detenuto non è spiegabile soltanto come l'esito di problemi personali, ma è un fallimento per lo Stato e le sue istituzioni che, nel momento in cui privano della libertà una persona, hanno il dovere di garantire alla stessa delle condizioni di vita e di salute fisica e mentale dignitose. I dati riguardanti il numero di suicidi tra i detenuti mettono in mostra come le pesanti difficoltà in cui versa il sistema carcerario non sono in grado di cogliere il profondo disagio che porta ad un gesto del genere. In certi casi, il disagio della persona è stato rilevato dagli psicologi del carcere ma non è stato possibile offrire un supporto adeguato.
«Il disagio profondo che porta qualcuno al suicidio, scaturisce da tante cose - afferma Omar Corona - sia dalle condizioni di vita in carcere sia dalla paura di ciò che li aspetta una volta scarcerati. Molte persone fuori non hanno nulla, nemmeno una casa».
Nel 2022, si è registrato il più alto numero di suicidi tra i detenuti in carcere (84), con un'incidenza 20 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. La maggior parte dei suicidi è avvenuta tramite impiccagione.
A questo proposito, Saber racconta una sua esperienza molto forte: «Conoscevo un ragazzo a Buoncammino che si uccise da un momento all'altro. Con i compagni di cella, - racconta Saber - stava guardando il Grande Fratello in televisione, quando andò a fumarsi una sigaretta in bagno e si impiccò. Spesso chi fa questi gesti non dà nessun segnale».
Ma non sono solo i detenuti a togliersi la vita. Dal 1997 al 2019 si sono suicidati 154 agenti facenti parte della polizia penitenziaria. Nel 2022, ce ne sono stati quattro. Sono numeri enormi che mettono in evidenza il forte stress a cui sono sottoposte le guardie carcerarie, costantemente sotto organico. I suicidi del personale penitenziario sono una costante tanto quanto quelli dei detenuti, ma nonostante ciò mancano ancora delle serie azioni che possano contrastare il disagio e lo stress lavorativo a cui sono sottoposti.
La situazione psicologica dei detenuti e del personale carcerario, in fin dei conti, è purtroppo molto simile.
«Ciò che più sconvolge - afferma Maria Cristina Ornano - è il fatto che, in parecchi casi, le modalità con cui si sono tolti la vita sono analoghe a quelle utilizzate dagli stessi detenuti. Questo dimostra come il disagio nel carcere colpisce tutti coloro che vivono in esso».
Sono invece migliaia i casi di tentati suicidi o di atti di autolesionismo che si registrano ogni anno.
I casi di suicidio nelle carceri della Sardegna
Come si può evincere dall'infografica, negli ultimi 10 anni, si sono verificati ben 27 casi di suicidio nelle carceri sarde. Questo numero corrisponde al 4,5% del totale dei suicidi negli istituti penitenziari italiani.
Si può notare come all'interno di questa casistica, rientrino le carceri più capienti e sovraffollate dell'isola, con l'esclusione del carcere di Nuoro.
Ciò dimostra ancora una volta che più gli istituti sono grandi, sovraffollati e con personale sotto organico e più risulta difficile tenere sotto controllo la salute mentale dei detenuti. Non a caso, la maggior parte dei suicidi è avvenuta nelle carceri cagliaritane di Buoncammino (fino alla sua dismissione nel 2014) e Uta.
Nella quasi totalità dei casi (85%), i detenuti che si sono tolti la vita, lo hanno fatto tramite impiccagione. Questo trend corrisponde alla media registrata nelle altre carceri italiane. Gli altri suicidi sono avvenuti tramite avvelenamento, dissanguamento (nel caso specifico tramite taglio della gola) e asfissia da gas (viene utilizzato il gas delle bombolette che servono per cucinare). Un solo suicidio è avvenuto fuori dalle mura del carcere. Si tratta di un detenuto che si gettò dalla finestra dell'ospedale Businco di Cagliari. Un suicidio che si sarebbe potuto evitare se all'interno dell'ospedale fosse stato presente un repartino detentivo ospedaliero con sbarre alla finestra.
«La sanità in carcere? Si risolve tutto con una sola pastiglia e se il problema non ti passa, te lo fai passare»
Attualmente la situazione in cui versa la sanità penitenziaria è gravemente problematica. Nelle carceri di tutta Italia si registra una pesante carenza di personale sanitario e di Reparti detentivi ospedalieri. Ciò è dovuto specialmente ai drastici tagli alla sanità degli ultimi anni che hanno reso disastrosa una situazione già di per se difficile.
«La sanità in carcere non esiste - afferma amaramente Maria Cristina Ornano - è sempre più debole ed insufficiente. Nel momento in cui la sanità ha cominciato a vacillare all'esterno, in carcere non ha retto».
La sanità fa fatica a tenere sotto controllo i problemi di salute dei detenuti, in modo particolare di quelli tossicodipendenti. Questi, secondo la rilevazione statistica riportata nella Relazione annuale al Parlamento presentata dal Dipartimento Politiche Antidroga, nel 2022 rappresentavano il 30% dei detenuti. Lo stesso rapporto ha stimato per la Sardegna una percentuale del 20%. Nel 2023 la situazione sembrerebbe essersi ulteriormente aggravata dato che, secondo fonti non ancora ufficiali, il 40,7% dei detenuti entrati in carcere negli ultimi 12 mesi sarebbe tossicodipendente. In alcuni di loro, il problema delle droghe si somma a quello dell'alcolismo e della ludopatia. Il non essere in grado di curare queste persone pone sotto stress anche gli altri detenuti che hanno serie difficoltà a relazionarsi e a convivere 24 ore su 24 con loro.
«Ho avuto dei compagni di cella tossicodipendenti - racconta Saber - e spesso capitava che inalassero tutto il gas delle bombolette che si usano per cucinare per sopperire all'astinenza».
Ancora più grave è la situazione riguardante il supporto psicologico sia per i detenuti che per il personale penitenziario. La presenza di detenuti con disturbi di rilevanza psichiatrica è elevatissima. Queste persone sono bisognose di trattamenti particolari da parte di personale specializzato che però è, anche in questo caso, gravemente carente. Inoltre le Rems (residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) non sono in grado di accogliere un cospicuo numero di questi detenuti. Infatti, le Rems funzionanti in Italia sono appena 30 per una capienza totale di circa 600-700 posti. In Sardegna c'è solo quella di Capoterra (Ca) che ha una capienza di appena 16 posti.
«Bisogna considerare che molte persone entrano in carcere già con problemi psichiatrici - mette in evidenza Maria Cristina Ornano - mentre molti altri gli sviluppano durante la detenzione. Il supporto psicologico dovrebbe essere fondamentale anche per il percorso di recupero di questi detenuti, invece è pesantemente carente».
Per sottolineare la dimensione del problema, basti pensare che nel carcere di Uta (il più grande della Sardegna), durante la detenzione di Saber e Cristian, era presente un solo sportello d'ascolto per i detenuti.
«Quando ero in carcere a Uta - racconta Cristian - c'era un solo sportello. Gli psicologi sono troppo pochi per troppe persone. Fanno quello che possono. Il supporto è minimo, praticamente nullo. Facevi prima a risolverti i problemi da solo».
Le problematiche sopra elencate, hanno inevitabilmente pesanti ripercussioni sul personale penitenziario che lavora negli istituti. La carenza di adeguate forme di sostegno e di supporto psicologico rivolte agli agenti di polizia penitenziaria, hanno causato e causano forti disagi che purtroppo possono sfociare anche in gravi episodi di violenza auto ed etero indotta.
Sotto organico
Al sovraffollamento dei detenuti nelle carceri, si aggiunge un altro gravissimo problema del tutto opposto: la carenza di personale di polizia penitenziaria, di ruoli dell'amministrazione penitenziaria, degli educatori e di direttori e vicedirettori.
Al vertice della struttura amministrativa di un istituto penitenziario si trova il direttore. Questa figura in un carcere è fondamentale. Infatti è responsabile del coordinamento delle aree dell'istituto che dirige, della gestione amministrativa della struttura e del personale, e delle attività che si svolgono all'interno. Sarebbe una cosa scontata dire che ogni carcere dovrebbe avere un direttore a tempo pieno per essere amministrato al meglio, ma così non è. Nel 2022, come rilevato dal rapporto Antigone, si è registrata una diffusa mancanza di direttori degli istituti di pena. Per questo motivo i direttori in carica sono costretti a gestire più istituti contemporaneamente. Nel caso specifico della Sardegna, il direttore del carcere di Uta deve gestire anche quelli di Sassari e Nuoro (il secondo e terzo per capienza). La presenza del direttore, indispensabile in carceri di questa entità, non è quotidianamente garantita visto lo svolgimento dell'incarico in tre istituti diversi. A sopperire a questa mancanza dovrebbe essere la figura del vicedirettore. Secondo le "schede trasparenza istituti penitenziari" consultabili sul sito del Ministero della Giustizia, aggiornate al mese di agosto 2023, nelle carceri sarde è presente un solo vicedirettore (carcere di Uta) su 10 istituti presenti.
La categoria a risentire maggiormente della carenza di personale è quella dei funzionari amministrativi. Le schede trasparenza del Ministero della Giustizia aggiornate all'agosto 2023, mostrano che la differenza tra i funzionari amministrativi presenti e quelli previsti è circa del 20%. Nell'isola, ad esempio, queste figure sono gravemente carenti in tutti e dieci gli istituti penitenziari.
Anche gli educatori sono sotto organico. Il loro compito è quello di garantire lo svolgimento di attività utili ai fini del reinserimento in società dei detenuti. Inoltre, collaborano alla progettazione di suddette attività. Il loro ruolo è fondamentale per l'accesso alle misure alternative dei detenuti definitivi. Secondo il Dap (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria), ogni educatore deve avere in carico 65 detenuti. Tuttavia, sono 100 su 191 gli istituti che presentano un rapporto persone detenute/educatore più elevato. Per quanto riguarda la Sardegna, soltanto nel carcere di Sassari questo rapporto supera il dettame del Dap, con una media di 77 detenuti per educatore. Nonostante ciò, questa categoria è comunque carente: gli educatori previsti tra tutti gli istituti sardi sono 54, mentre gli effettivi sono 48.
Gravissima è la situazione riguardante l'organico degli agenti della polizia penitenziaria. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 2023, manca il 15% delle unità previste. Il rapporto attuale tra detenuti ed agente è di 1,8 al fronte di una previsione di 1,5. Negli istituti più grandi e più affollati si registra una carenza di personale maggiore, come ad esempio Regina Coeli e Bollate che hanno un rapporto di 3 detenuti per agente. Inoltre, appare inspiegabile come in alcuni casi, il personale di polizia penitenziaria previsto sia uguale o persino superiore al numero dei posti detentivi regolamentari. Ciò accade ad esempio nel carcere di Lanusei (Nu), dove sono previsti 42 agenti a fronte di una capienza massima di 33 detenuti. Ad oggi, gli agenti presenti sono 34 mentre i detenuti sono 29. Il rapporto è quindi bassissimo, tant'è vero che si attesta allo 0.8. Escluso questo caso, in tutti gli istituti dell'isola il personale penitenziario è carente.
Dati sulle carceri della Sardegna
In questa mappa è possibile osservare i numeri riguardanti le carceri in Sardegna. All'interno di ogni scheda sono stati inseriti i dati riguardanti la capienza e il numero di detenuti presenti, gli agenti della polizia penitenziaria effettivi e previsti con il rapporto detenuti per agente, i funzionari amministrativi effettivi e previsti, gli educatori effettivi e previsti con il rapporto detenuti per educatore. Tutti i dati relativi alle presenze dei detenuti e la capienza delle carceri sono aggiornati al 30 novembre 2023 e la fonte è il Ministero della Giustizia, mentre quelli del personale penitenziario, di quello amministrativo e degli educatori, sono aggiornati al 31 agosto 2023.
«Il lavoro è fondamentale per rieducare chi ha commesso un crimine»
Ad oggi Saber e Cristian hanno finito di scontare la loro pena e sono da anni due uomini liberi. Lavorano nel Tribunale di Cagliari, all’interno di un progetto di reinserimento organizzato dall’Aspal (Agenzia Sarda per le Politiche Attive del Lavoro), dal Tribunale di Cagliari e dalla comunità La Collina di Serdiana (Ca) dove si occupano della dematerializzazione degli atti penali. Insieme a loro lavorano altri ragazzi ex detenuti o in regime di libertà e Omar Corona, un educatore della comunità La Collina. Grazie a questo progetto, i ragazzi hanno avuto la possibilità di lavorare e di costruirsi una vita al di fuori delle mura del carcere.
«Questi ragazzi mi hanno insegnato molto. Ho imparato a rapportarmi meglio con le persone, non solo con chi ha commesso dei crimini. L'esperienza che ho avuto con loro è stata fondamentale anche per me», afferma Omar Corona.
Secondo i dati pubblicati dal Cnel (Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro) nel dicembre 2022, il tasso di recidiva per gli ex detenuti che hanno stipulato un contratto collettivo nazionale è del 2%, contro il 70% di coloro che non hanno un contratto di lavoro. L'importanza del lavoro e della rieducazione è sotto gli occhi di tutti. Chi ha la possibilità di lavorare durante il periodo di reclusione, una volta scontata la propria pena, di fatto non torna più a delinquere. Il lavoro è senza ombra di dubbio lo strumento più efficace per rieducare.
Negli anni, solo una parte minoritaria della popolazione carceraria ha usufruito di questa possibilità. Sempre secondo i dati del Cnel, nel 2022, i detenuti e le detenute che avevano un contratto collettivo nazionale erano 18.654, ovvero il 34%. Di questi, l'84,7% era alle dipendenze dell'Amministrazione carceraria, mentre i restanti con le cooperative o con imprese esterne. Questi contratti sono del tutto simili a quelli dei lavoratori liberi, con gli stessi diritti e doveri. Ad esempio, coloro che lavorano nell'amministrazione percepiscono uno stipendio decurtato di un terzo rispetto a quella dei lavoratori in stato di libertà, hanno diritto alle ferie remunerate, alle assenze per malattia e il datore di lavoro paga per essi i contributi assistenziali e pensionistici.
Sarebbe utile investire di più sui progetti rieducativi dato che aiuterebbero a risolvere i problemi delle carceri e della sicurezza sociale. Se la maggior parte dei detenuti avessero questa opportunità, probabilmente diminuirebbe il sovraffollamento nelle carceri e anche la situazione di forte stress degli agenti penitenziari, causata da questo enorme problema, si ridurrebbe.
«Sia i magistrati di sorveglianza che i funzionari che lavorano nell'ambito dell'esecuzione penale esterna in Sardegna - sottolinea Maria Cristina Ornano - sono sotto organico. Questo significa una mole di lavoro più grande per poche persone e conseguenti ritardi nell'analisi delle pratiche dei detenuti».
Ancora una volta, il problema dei funzionari sotto organico si rivela in tutta la sua gravità.
«Inizialmente, la vita fuori dal carcere è stata molto difficile. Avevo il pensiero di pagare l'affitto, le bollette, gestire lo stipendio per arrivare a fine mese. Non è stato facile ma ci sono riuscito»
Una volta usciti dal carcere, Saber e Cristian si sono dovuti confrontare con il pregiudizio che la società aveva nei loro confronti. Per Saber, ad esempio, è stato molto difficile trovare una casa in affitto.
«Non è stato facile perché i padroni delle case non volevano affittare ad una persona con precedenti penali. Poi io sono pure tunisino, non sono italiano, e la difficoltà era doppia» racconta Saber con una risata.
Il pregiudizio è l'atteggiamento più diffuso verso chi è stato in carcere. È pensiero comune che chi abbia commesso un reato non sia in grado di capire i propri errori e cambiare vita. I protagonisti di questa storia sono la prova che ciò è invece possibile, non è semplice, ma possibile. Infatti, oggi sia Saber che Cristian, e tanti altri ex detenuti, hanno cambiato completamente la loro vita, lavorano e sono al di fuori di ogni logica criminale. Cristian è tornato nel suo quartiere, mentre Saber ha trovato una casa in affitto e studia alle scuole serali per conseguire il diploma superiore.
«Loro sono uomini liberi - afferma Omar Corona - e sono miei colleghi di lavoro. Sono già stati giudicati da un giudice e hanno già pagato il loro debito con la giustizia».
Entrambi non hanno avuto una vita semplice, ma hanno dimostrato di avere una grande forza e soprattutto una grande intelligenza che gli ha permesso di superare il passato e ricominciare da zero. Ma non bisogna lasciare in secondo piano il ruolo che ha avuto per loro Omar, una persona con una grande professionalità e soprattutto dotata di una grandissima umanità che ha permesso a tanti ragazzi di cambiare la loro vita.